Topi, coscienza e conoscenza

Topi, coscienza e conoscenza

Ho appena fatto conoscenza di un bellissimo esperimento sui topi che dimostra quel che già sapevo, ma che è bene sapere meglio e sempre! Perché, ricordate amici, che il sapere è schiavo dello spazio tempo. È un puzzle in continuo divenire e mai composto, le tessere mutano, si girano, trovano incastri nuovi, incastri vecchi diventati inutili impediscono di farne di nuovi che meglio si adatterebbero al mutare incessante della realtà a cui il nostro puzzle cerca di adattarsi se vivi siamo e a cui prima o poi tristemente si rinuncia, biologicamente morti o vivi, poco fa.

Si tratta di un messaggio mandato a un paio di amici che giustamente mi rispondono con qualche punto interrogativo. Per non parlare da solo investo un po’ di tempo per chiarire.

Comincio col riportare il brano ispiratore da “Solitudine digitale” di M. Spitzer:

“Quando si blocca l’ascensore e bisogna prendere le scale per arrivare sudati fradici al terzo piano, molte persone lo considerano uno stress. Ma è sbagliato: lo stress non equivale alla fatica fisica! Al contrario: quando si è sottoposti a una grande fatica fisica e si suda, si scarica lo stress!
Lo stress è tutt’altra cosa: vuol dire perdita di controllo. Vediamo un esempio semplicissimo (figura 5.2). Durante un esperimento un topo in una gabbia ogni tanto riceve una piccola scossa elettrica dal pavimento di fili metallici. La scossa fa male e il topo prova a evitarla. Questo gli è stato reso possibile inserendo nella gabbia una piccola lampada che si accende prima di ogni scossa elettrica. Nella gabbia è stato posto inoltre un pulsante da premere quando la lampada si accende. Se il topo riesce a premere il tasto con il giusto tempo di reazione, non ci sarà alcuna scossa. Se però il topo è troppo lento, riceverà la dolorosa scossa elettrica. L’assetto dell’esperimento è pensato in maniera tale che il topo riesca a evitare la scossa nella maggior parte dei casi. Capita tuttavia che ogni tanto sia troppo lento e debba ricevere la scossa.
A questo congegno elettrico è collegata un’altra gabbia in una stanza attigua. Anche in questa gabbia c’è un topo, ma i due animali non sono in contatto tra loro, non possono né vedersi né sentirsi l’un l’altro. Ogni volta che il primo topo riceve una scossa dolorosa (ovvero ogni volta che la sua reazione alla lampada è stata troppo lenta) anche il topo nella seconda gabbia riceve una scossa. Per il resto, il topo n. 2 non ha niente da fare e «cazzeggia», come si direbbe oggi in gergo giovanile. Nella sua gabbia non ci sono né lampade, né pulsanti e non può modificare il proprio destino. D’altro canto, questo topo non ha bisogno di essere sempre sul chi va là e di fare attenzione all’accensione della luce per poter reagire prontamente.
Quale dei due topi è stressato dalle proprie condizioni di vita? Si potrebbe pensare: il topo n. 1 che deve stare attento a reagire prontamente ed è sempre «in tensione» per evitare di essere colpito dalla tensione dei cavi elettrici. Tutto l’opposto per il topo n. 2, che non ha nulla da fare e riceve solo ogni tanto uno stimolo doloroso, esattamente lo stesso del topo n. 1 e nello stesso istante.

Tuttavia, misurando la concentrazione dell’ormone dello stress nel sangue, oppure osservando l’insorgere di malattie legate allo stress, si può dimostrare che non è il topo n. 1 a essere sotto stress, come ci si sarebbe aspettati, ma il topo n. 2. Anche se entrambi subiscono lo stesso maltrattamento (la stessa scossa dolorosa nello stesso momento), l’esperienza soggettiva per i due animali è estremamente diversa: il topo n. 1 ha la situazione relativamente «in pugno», il topo n. 2 no. Il topo n. 1 si accorge di poter evitare la scossa nella maggior parte dei casi e viene punito solo quando non è stato sufficientemente attento e quindi troppo lento. Per il topo n. 2 non è rilevante come si comporti, lui ogni tanto riceve una scossa dolorosa, come un fulmine a ciel sereno.

L’esperimento mostra chiaramente che non sono le esperienze spiacevoli a provocare stress, ma la sensazione di essere impotenti di fronte a esse, di essere alla loro mercé. Non avere alcuna possibilità di azione (come nel caso del topo) produce stress cronico. Siamo stressati ogni qualvolta perdiamo il controllo della situazione. Da questo consegue anche che il senso di autosufficienza è la ricetta migliore contro lo stress. La seconda ricetta migliore, ancora più importante nella vita quotidiana, è la compagnia di altre persone.”

Quindi provo a spiegarmi.

L’ho sempre saputo, probabilmente in questo caso, da quella parte di conoscenza ereditata che chiamiamo istinto. Istintivamente reagisco alle condizioni stressanti cercando velocemente delle soluzioni che a volte sono semplicemente la fuga, e la sola idea di poterlo fare mi tranquillizza.
Ora veniamo al puzzle. Coscienza e conoscenza. Su cosa sia la coscienza non è il caso nemmeno di iniziare a parlare letto Dennett e compagnia, ma posso immaginarla operativamente come uno scanner a due dimensioni, un piano che taglia una composizione tridimensionale fatta da tessere aggregate che rappresenta la nostra conoscenza. Cosa vuol dire conoscere? Non so neanche questo ovviamente, ma so che è un magnifico privilegio con enormi limiti. Ora, immaginiamo la conoscenza come una struttura tridimensionale in grado di interpretare la realtà per interagire proficuamente con la stessa (ci si può fare un’idea QUI). La struttura dovrà contenere i dati , metterli in relazione, interpretarli. Lo spazio (noi stessi) è giocoforza limitato, possiamo contenere una quantità irrisoria della realtà, è come provare a stipare in una scatola di scarpe la biblioteca di Babele.
Esiste anche un limite temporale, legato alla relazione tra coscienza e conoscenza, non possiamo abbracciare tutto il contenuto della scatola (ciò che sappiamo, in tutti i sensi, anche ciò che sanno le nostre cellule o il nostro fegato o che sapevamo a due anni o due anni fa) in un solo istante, ciò che conosciamo ora non è tutto ciò che conosciamo, ma una sorta di fermo immagine di qualcosa in movimento (è simile al meccanismo della visione che si basa sulla memoria più che sulla lettura dei dati che arrivano dal nervo ottico).

La faccenda del puzzle.
Nella scatola costruiamo una realtà attraverso un puzzle costruito nello spaziotempo fatto di elementi di conoscenza. La bellezza del puzzle siamo noi e il mondo in cui viviamo. Siamo vivi se capaci di modificare, adattare e godere della plasticità della nostra conoscenza. Quando le tessere si sono inesorabilmente saldate, non impariamo più nulla, tutte le mattine saranno uguali, di fatto smettiamo di dare alla vita il suo significato profondo che è quello del divenire. Partecipiamo alle danze come una mela che cade (colpendo o meno Newton), uno scoiattolo che provoca un incidente stradale attraversando la strada, un gatto che combatte per riprodursi, ma ubbidendo a qualcosa, appunto, invece di crearlo.